Cibele e Attis (con Apollo e Marsia) – Diodoro Siculo

58. [1] Si tramanda anche una storia secondo cui questa dea [: la Grande Madre] sarebbe nata in Frigia. I nativi di quella regione raccontano che in passato divenne re di Frigia e Lidia Mèone: sposata Dìndime, ebbe una figlia femmina, ma non volendola allevare, la espose sul monte chiamato Cìbelo. Lì, per una qualche provvidenza divina, le pantere e qualche altro animale tra quelli particolarmente feroci porsero alla bambina il capezzolo e la nutrirono; [2] alcune donne, che si trovavano in quel luogo a pascolare le greggi, assistettero alla scena e, meravigliatesi per l’inaspettato evento, presero la bambina e la chiamarono Cìbele dal nome di quel monte. Divenuta una ragazza, spiccava sia per bellezza sia per moderazione, e inoltre suscitava ammirazione per la sua intelligenza: per prima, infatti, escogitò la siringa a più canne e inventò cembali e timpani per i giochi e le danze, oltre a ciò introdusse riti di purificazione per curare le malattie sia degli animali sia dei bambini piccoli; [3] perciò, poiché i bambini erano salvati dai suoi incantesimi e i più di loro erano da lei tenuti in braccio, per la sua attenzione e il suo affetto verso costoro fu chiamata da tutti «madre montana». Dicono che vivesse con lei e nutrisse per lei un affetto particolare il frigio Màrsia, ammirato per la sua intelligenza e la sua moderazione: una prova della sua intelligenza la trovano nel fatto che imitava i suoni della siringa a più canne e trasferiva l’intera armonia sui flauti; un segno della sua moderazione, invece, era, dicono, il fatto che fino alla fine non sperimentò mai i doni di Afrodite. [4] Giunta al fiore dell’età, dunque, Cìbele si innamorò di un giovinetto del luogo, chiamato Attis, in seguito soprannominato Papas: dopo essersi congiunta in un amplesso con lui di nascosto ed essere rimasta incinta, proprio in questo periodo fu riconosciuta dai genitori.

59. [1] Perciò fu portata alla reggia e il padre all’inizio la accolse credendola vergine; ma in seguito venne a sapere della sua deflorazione e uccise sia le sue nutrici sia Attis, lasciando i loro cadaveri insepolti. A questo punto, dicono, Cìbele, per il suo affetto verso il ragazzo e il dolore per le nutrici, divenne pazza e scappò via dalla reggia dirigendosi in campagna. E lanciando alte urla e suonando il timpano percorse tutta la regione da sola con i capelli sciolti, e Màrsia, provando pietà per il suo dolore, la seguì volontariamente nei suoi vagabondaggi in nome dell’affetto di un tempo. [2] Giunti da Dionìso sulla Nisa, trovarono Apollo che in quel momento godeva di grande approvazione a causa della cetra, che, dicono, aveva inventato Ermes, ma Apollo per primo utilizzava a modo: Màrsia si schierò contro Apollo in una sfida di abilità e come giudici furono designati i Nisei. Apollo, esibendosi per primo, suonò la cetra senza accompagnamento della voce, Màrsia invece, esibendosi per secondo con i suoi flauti, colpì gli ascoltatori con il carattere straniero della sua musica, e per la sua melodia sembrò superare di molto il primo contendente. [3] Poiché i due si erano accordati per mostrare la loro abilità ai giudici a turni alterni, Apollo, dicono, al suo secondo turno aggiunse un canto armonizzato al suono della cetra, grazie al quale superò la precedente approvazione riservata ai flauti. L’altro, arrabbiatosi, spiegò agli ascoltatori che egli risultava inferiore contro ogni principio di giustizia: bisognava, infatti, che si confrontasse l’abilità, non la voce, perché solo in quel confronto era possibile esaminare l’armonia e il suono della cetra e dei flauti; e oltre a ciò era ingiusto mettere a confronto da un lato due abilità e dall’altro una sola. Apollo, raccontano, disse che in nessun modo egli godeva di un vantaggio in più rispetto a lui: [4] anche Màrsia, infatti, faceva una cosa abbastanza simile alla sua quando soffiava nei flauti. Bisognava, dunque, o che a entrambi in egual misura fosse data questa possibilità di combinare le due abilità, o che nessuno dei due contendesse con la bocca, ma mostrasse la propria abilità con le sole mani. [5] Poiché gli ascoltatori decisero che Apollo aveva ragione, furono confrontate di nuovo le loro abilità: Màrsia fu sconfitto e Apollo, esacerbato dalla contesa, scorticò vivo il perdente. Essendosene pentito subito dopo e mal sopportando ciò che aveva fatto, strappò via le corde dalla cetra e distrusse l’armonia che aveva inventato. [6] Questa, in seguito, fu riscoperta, poiché le Muse inventarono la corda di mezzo, Lino quella pizzicata con l’indice, Òrfeo e Tàmira la più alta e quella accanto a essa. Apollo, dicono, dedicò sia la cetra sia i flauti nella caverna di Dionìso e, innamoratosi di Cìbele, la accompagnò nei suoi vagabondaggi fino agli Iperbòrei. [7] Poiché poi in Frigia una pestilenza si era abbattuta sugli esseri umani e la terra era divenuta infruttifera, quando gli abitanti, nel pieno della sventura, interrogarono il dio chiedendogli come potevano allontanare i loro mali, fu loro comandato, dicono, di seppellire il cadavere di Attis e di onorare Cìbele come dea. Perciò i Frigi, poiché il cadavere era stato distrutto col passare del tempo, realizzarono un’immagine del ragazzo, davanti alla quale, compiangendolo con onori adatti al suo dolore, placarono l’ira della vittima innocente: cosa che hanno continuato a fare fino ai nostri giorni. [8] Quanto a Cìbele, anticamente, innalzati altari in suo onore, le offrivano sacrifici annuali; in seguito, a Pessinunte in Frigia costruirono un tempio molto costoso e introdussero onori e sacrifici magnificentissimi, anche con il contributo di un estimatore del bello come il re Mida: alla statua della dea accostarono pantere e leoni per la credenza secondo cui in un primo tempo fu nutrita da questi animali.

 

Continua a leggere

Sognare corone – Artemidoro di Daldi

Cingersi con una corona fatta di fiori è, in generale e di comune accordo, positivo se sono fiori di stagione, negativo se non sono fiori di stagione. Poiché è necessario, per chiarezza, parlare di ogni tipo di fiore, procederò così. Corone fatte di narcisi sono negative per tutti, anche se sono viste quando è stagione, soprattutto[, principalmente a causa del mito,] per coloro che si guadagnano da vivere con l’acqua o sull’acqua e per coloro che si accingono a navigare. Quelle fatte di viole sono positive se è stagione, negative se non è stagione; e, tra queste, quelle di viole bianche segnalano gli inconvenienti manifesti e significativi, quelle di viole color zafferano gli inconvenienti più insignificanti, quelle di viole purpuree segnalano anche morte: il colore purpureo, infatti, ha una certa affinità [anche] con la morte. Quelle di rose, quando è stagione, sono positive per tutti tranne i malati e coloro che tentano di nascondersi. Gli uni, infatti, li uccidono per il fatto che le rose sono veloci ad appassire, gli altri li smascherano per il loro odore. Dove è possibile avere a disposizione rose anche in inverno, lì si deve sempre ragionare in termini positivi. Quelle di amaranto sono positive per tutti, e soprattutto per coloro che sono sotto processo, poiché l’amaranto, per il suo nome (che significa «l’immarcescibile») e il suo colore, li proteggerà fino alla fine. Queste corone, però, sono negative per i malati: sono dedicate, infatti, o ai morti o agli dèi, raramente a persone in vita. Quelle fatte di gigli differiscono i problemi a tempi migliori. Cingersi di corone di menta d’acqua, di maggiorana frigia, di erba pazienza, di Calamintha incana, di Anemone coronaria e di maggiorana è negativo per tutti: per lo più, infatti, segnalano malattia. Il fiore della malva selvatica e dell’oleandro è positivo per i soli giardinieri e contadini, per gli altri segnala fatiche e viaggi all’estero. Le stesse cose di questi fiori segnalano anche il timo arbustivo, la Cuscuta epithymum e la Trigonella graeca, tranne per i medici: per costoro, infatti, sono positivi. Una corona di sedano uccide i malati e per lo più gli idropici, per il fatto che il sedano è freddo e molto umido e questa corona è adatta a dei giochi funebri; per gli atleti è positiva, per gli altri infausta. Corone di palma da datteri e di olivo assicurano matrimoni con donne libere, perché sono formate con foglie intrecciate tra loro, e predicono figli longevi, perché si tratta di alberi sempreverdi: la palma da datteri predice un figlio, l’olivo una figlia. Inoltre, assistono [coloro che inseguono la carriera politica e] gli atleti e i poveri: i secondi, infatti, li rendono ricchi, i primi famosi. Inoltre, liberano gli schiavi: queste corone, infatti, sono proprie di uomini liberi [(e questo segnale è tanto più significativo qualora sognino di averle guadagnate in una competizione)]. Inoltre, smascherano i segreti, per il fatto che queste corone suscitano grandi ovazioni. Le stesse cose di queste corone segnalano anche la corona di quercia e quella di alloro; la corona di mirto, poi, segnala le stesse cose dell’olivo, ed è tanto più positiva per i contadini a causa di Demetra e per le donne a causa di Afrodite: la pianta, infatti, è in comune alle due dèe. Le corone di cera sono negative per tutti, soprattutto per i malati, perché i poeti chiamano la morte anche ker. Quelle fatte di lana, per il fatto che sono variegate, segnalano farmaci e incantesimi. Quelle di sale o di zolfo segnalano che quello che le vede sarà oppresso da qualcuno a lui superiore: sono, infatti, per natura pesanti e non hanno nulla di piacevole. Sognare di avere una corona dorata è negativo per uno schiavo, a meno che non abbia anche ciò che va insieme alla corona, intendo la porpora e la scorta; è negativo anche per un povero, per il fatto che è immeritata. Perciò l’uno sarà torturato, l’altro sarà scoperto a commettere grandi colpe. È verisimile che anche costui sarà torturato. A un malato predice morte veloce: l’oro, infatti, è pallido, pesante e freddo, e perciò è assimilato alla morte. Inoltre, smaschera i segreti: in ogni caso, infatti, è inevitabile che colui che indossa oro sia guardato da tutti. Per i ricchi, i capi del popolo e coloro che hanno scelto la carriera politica, ho osservato che [sognare] questa corona è una cosa positiva. Una corona di vite e di edera giova solo agli artigiani dell’ambito di Dioniso, per gli altri segnala incantesimi a causa dei viticci e degli intrecci dell’edera o malattia per le stesse ragioni. Ai criminali segnala che gli si taglierà la gola per il fatto che queste piante sono tagliate col ferro. Sognare di coronarsi di cipolle giova a chi fa il sogno, mentre danneggia quelli intorno a lui.

Continua a leggere

La ghirlanda – Rufino

RUFINO

Ti mando questa bella ghirlanda di fiori, Rodoclea,
che io stesso ho intrecciato con le mie mani.
C’è il giglio e il bocciolo della rosa e l’umida anemone
e il molle narciso e la viola dagli occhi blu scuro.
Inghirlàndati con questi fiori e smetti di essere altezzosa:
anche tu, come questa ghirlanda, fiorisci e appassisci.

Continua a leggere

Lamentazioni 1, 1-5 – Septuaginta

E avvenne che, dopo la riduzione in schiavitù di Israele e la devastazione di Gerusalemme, Geremia sedette piangendo e pronunciò questo lamento su Gerusalemme e disse:

1 Come siede solitaria la città che un tempo era fiorente di popoli! È divenuta come una vedova, lei che era fiorente fra le nazioni; lei che era signora fra le terre, è divenuta tributaria.

2 Piangente piange nella notte, le sue lacrime sulle sue mascelle, e non c’è chi la consoli tra tutti coloro che la amano: tutti coloro che le volevano bene hanno agito con perfidia contro di lei, sono diventati suoi nemici.

3 La Giudea è stata deportata per la sua umiliazione e per la grandezza della sua schiavitù; siede fra le nazioni, non trova riposo: tutti coloro che le davano la caccia l’hanno raggiunta in mezzo agli oppressori.

4 Le strade di Sion sono in lutto perché non c’è chi venga a una sua festa: tutte le sue porte distrutte, i suoi sacerdoti gemono, le sue fanciulle sono portate via come prigioniere, e lei stessa è nell’amarezza.

5 I suoi oppressori sono divenuti i capi, e i suoi nemici prosperano, perché il Signore l’ha umiliata per la grandezza delle sue empietà; i suoi bambini sono stati ridotti in schiavitù davanti agli occhi dell’oppressore.

 

Continua a leggere

Le cause della guerra civile – Floro

Sottomesso ormai quasi tutto il mondo, il potere di Roma era troppo grande perché potesse essere sopraffatto da alcuna forza esterna. Perciò la Fortuna, guardando di malocchio il popolo sovrano delle genti, mise in mano a lui stesso le armi per la sua propria distruzione. E senza dubbio la furia di Mario e di Cinna già era stata un preludio interno alla città, come se la stesse mettendo alla prova. La tempesta sillana tuonò per uno spazio più ampio, tuttavia ancora all’interno dell’Italia. La follia di Cesare e di Pompeo travolse quasi come in un diluvio e in un incendio la città, l’Italia, le genti, le popolazioni, in breve tutto il dominio di Roma per tutta la sua estensione, a tal punto che non sarebbe giusto chiamare questa guerra “civile”, e neanche “sociale”, ma neppure “esterna”, quanto piuttosto un qualcosa in comune tra tutte queste cose e più di una guerra. […]
La causa di una tanto grande sciagura fu la stessa di tutte le sciagure, un’eccessiva prosperità. Giacché, sotto il consolato di Quinto Metello e di Lucio Afranio, quando la potenza romana si estendeva su tutto il mondo e nei teatri di Pompeo Roma celebrava le recenti vittorie, i trionfi sul Ponto e sull’Armenia, l’eccessivo potere di Pompeo, come succede di solito, suscitò invidia nei cittadini inoperosi. Metello, a causa dello sminuito trionfo su Creta, e Catone, sempre ostile ai potenti, screditavano Pompeo e rumoreggiavano contro le sue azioni. Da qui in poi il risentimento sviò gli animi e spinse ad allestire difese per il proprio prestigio. In quel momento Crasso si trovava a eccellere per stirpe, ricchezze e prestigio, tanto che voleva tuttavia risorse ancora più ingenti; Gaio Cesare era nobilitato dalla sua eloquenza e dal suo spirito, quand’ecco ormai anche dal consolato; Pompeo, tuttavia, sovrastava entrambi. Così, dunque, poiché Cesare desiderava guadagnare prestigio, Crasso aumentarlo, Pompeo mantenerlo, e tutti erano parimenti desiderosi di potere, stipularono facilmente un patto per impossessarsi dello Stato. Quindi, mentre si appoggiavano l’uno sulle forze dell’altro, ognuno per il suo proprio tornaconto, Cesare assale la Gallia, Crasso l’Asia, Pompeo la Spagna: tre grandissimi eserciti, e per mezzo di questi il dominio del mondo è in mano a un’alleanza di tre capi. Per dieci anni si protrasse questo accordo di potere, poiché erano trattenuti dalla reciproca paura. Alla morte di Crasso presso i Parti e alla morte di Giulia, figlia di Cesare, la quale, andata sposa a Pompeo, manteneva la concordia tra il genero e il suocero con il vincolo matrimoniale, subito la rivalità esplose. Ormai Pompeo guardava con sospetto le risorse di Cesare e per Cesare era un peso il prestigio di Pompeo. Né il primo tollerava uno pari a lui, né il secondo uno superiore a lui. Che scelleratezza! Così si logoravano per il primato, come se la Fortuna di un tanto grande dominio non li potesse contenere entrambi.

 

Continua a leggere

Euripide, Elena, terzo stasimo

O veloce remo
fenicio di Sidone, ciurma cara
ai frangenti di Nereo,
guida delle belle danze
dei delfini, quando il mare
è privo di soffi di venti,
e l’azzurra figlia di Ponto,
Galanea, dice queste parole:
«Ripiegate le vele, lasciando
stare i soffi marini,
e prendete le pale abetine,
o marinai, marinai,
che scortate Elena
alle rive ricche di porti della dimora di Perseo.

Forse lungo il flutto del fiume
o davanti al tempio di Pallade troverà
le fanciulle figlie di Leucippo,
unendosi finalmente alle danze
o alle feste di Giacinto
in notturna allegria,
che gareggiando
nel disco dal cerchio rotondo
Febo uccise (alla terra
spartana la progenie di Zeus
disse di onorare quel giorno con sacrifici di buoi);
e la fanciulla che †lasciò in casa†
<…>
per le cui nozze non hanno ancora brillato le torce di pino.

Magari potessimo volare
attraverso l’etere fino in Libia, dove
gli uccelli a stormo,
lasciata la pioggia invernale,
ritornano obbedendo
al fischio del più vecchio,
il pastore, che grida
volando sopra le pianure secche
e fruttifere della terra.
O volatili dal collo lungo,
compagni di corsa delle nuvole,
andate sotto le Pleiadi a metà del loro tragitto
e sotto Orione notturno,
annunciate la notizia,
posandovi sull’Eurota,
che Menelao, presa
la città di Dardano, sta per tornare a casa.

Venite con i vostri cavalli
slanciandovi attraverso l’etere,
figli di Tindaro,
voi che abitate in cielo
sotto le bufere di astri splendenti,
gemelli salvatori di Elena,
sull’azzurro flutto marino
e i bianchi frangenti cerulei
delle onde del mare,
mandando ai marinai soffi
propizi di vento, dono di Zeus,
e togliete a vostra sorella
l’infamia di barbari letti,
che si guadagnò come punizione
per la contesa sull’Ida, lei che
non andò nella terra di Ilio,
alle torri di Febo.

Continua a leggere

Lo scettro – Carmina Priapea

 

Omero, Iliade I 233-244 [parla Achille ad Agamennone]

Ma io ti parlerò chiaro e farò inoltre un grande giuramento:
per questo scettro, che mai più produrrà foglie
e rami, una volta che ha lasciato il suo tronco sui monti,
né rifiorirà (tutto intorno, infatti, il bronzo lo ha scorzato
di foglie e di corteccia, e ora i figli degli Achei
lo portano in mano quando fanno i giudici, quelli che osservano
i giudizi di Zeus)—questo sarà per te un grande giuramento:
certo un giorno il rimpianto di Achille verrà sui figli degli Achei,
tutti quanti; quel giorno, per quanto ti affliggerai, non potrai
portare alcun aiuto, quando molti per mano di Ettore omicida
cadranno morti, ma ti rimorderai l’animo dentro
adirandoti di non aver ripagato nulla al migliore degli Achei».

 

Virgilio, Eneide XII 201-211 [parla Latino a Enea]

Tocco gli altari, e chiamo a testimoni gli dèi e i fuochi tra noi:
nessun giorno vedrà gli Itali infrangere questa pace e questi patti,
dovunque volgano gli eventi; e nessuna violenza torcerà
il mio consenso, nemmeno se affondi la terra nelle onde
mischiandole in un diluvio e dissolva il cielo nel Tartaro;
come questo scettro» (portava, infatti, uno scettro nella destra)
«mai più da una tenera foglia produrrà virgulti né ombre,
una volta che, tagliato nei boschi dalla profonda radice,
manca della madre e ha deposto le chiome e le braccia recise,
albero un tempo, ora la mano di un artefice lo ha racchiuso
in splendido bronzo e l’ha dato da portare ai padri Latini».

 

Poesie per Priapo 25 [parla Priapo]

Questo bastone, che è stato tagliato
dall’albero e non metterà più foglie,
scettro che cercano ragazze in foia,
che alcuni re vorrebbero tenere,
cui dànno baci checche rinomate,
lo ficcherò nei visceri del ladro
fino al pelo e al picciòlo dei coglioni.

Continua a leggere

Dannata barba – Stratone di Sardi

 

DI STRATONE
Ma non eri un ragazzo ieri? E nemmeno in sogno ti era mai venuta
questa barba? Come diamine è spuntato questo pelo
che ha nascosto tutte le cose belle di prima? Che prodigio è questo?
Ieri eri Troilo: com’è che sei diventato Priamo?

Continua a leggere

Cypria, Argomento – Proclo

Seguono a questi i cosiddetti Cypria, tramandati in undici libri; della forma del titolo parleremo in seguito, per non impacciare ora la continuità del racconto. Il contenuto è questo.
Zeus si consulta con Temi sulla guerra troiana. Mentre gli dèi stanno banchettando alle nozze di Peleo, sopraggiunge Eris e suscita una gara di bellezza tra Atena, Era e Afrodite, le quali su ordine di Zeus sono condotte da Ermes alla presenza di Alessandro sull’Ida per il giudizio: Alessandro, eccitato dalla prospettiva delle nozze con Elena, giudica la più bella Afrodite. In seguito su consiglio di Afrodite allestisce una flotta, Eleno profetizza loro ciò che succederà, Afrodite ordina a Enea di salpare con Alessandro, e Cassandra rivela ciò che succederà.
Approdato in Lacedemonia, Alessandro è ospitato dai figli di Tindaro, e successivamente a Sparta da Menelao: durante il banchetto Alessandro offre dei doni a Elena. Successivamente Menelao salpa alla volta di Creta, comandando a Elena di procurare il necessario agli ospiti fino a che non se ne andranno. Intanto Afrodite congiunge Elena con Alessandro, e dopo essersi uniti, i due, imbarcate quante più ricchezze possibili, salpano di notte. Ma Era manda contro di loro una tempesta. E trascinato fino a Sidone, Alessandro si impadronisce della città. Poi, salpato alla volta di Ilio, celebra le nozze con Elena.
Intanto Castore e Polluce sono colti in flagrante mentre portano via le vacche di Ida e Linceo. E Castore è ucciso da Ida, quindi Linceo e Ida sono uccisi da Polluce. E Zeus concede loro l’immortalità a giorni alterni. Successivamente Iride riferisce a Menelao quello che è accaduto in casa sua. Egli, sopraggiunto dal fratello, si consulta con lui sulla spedizione contro Ilio; quindi Menelao si reca da Nestore. Nestore, in una digressione, gli racconta di come Epopeo, avendo violentato la figlia di Licurgo, ha subìto il saccheggio della sua città, e la storia di Edipo e la pazzia di Eracle e la storia di Teseo e Arianna.
In seguito radunano i comandanti, attraversando la Grecia. Odisseo finge di essere pazzo, non volendo partecipare alla spedizione, ma lo smascherano quando, su consiglio di Palamede, rapiscono il figlio Telemaco con l’intenzione di torturarlo. Successivamente si riuniscono ad Aulide e sacrificano. E viene fatto vedere l’episodio del serpente e dei passeri e Calcante predice loro quello che succederà.
In seguito salpano e approdano a Teutrania e si mettono a saccheggiarla credendo sia Ilio. Ma Telefo fa una sortita: uccide Tersandro, figlio di Polinice, ed è a sua volta ferito da Achille. Quando salpano dalla Misia, una tempesta li sorprende e vengono dispersi. Achille, approdato a Sciro, sposa la figlia di Licomede, Deidamia.
In seguito Telefo si reca ad Argo su indicazione di un oracolo e Achille lo guarisce a patto che faccia loro da guida per la navigazione verso Ilio. E dopo che la spedizione si è radunata ad Aulide per la seconda volta, Agamennone, colpito un cervo durante la caccia, afferma di superare anche Artemide. Adiratasi, la dea li trattiene dalla navigazione mandando contro di loro delle tempeste. Dopo che Calcante ha rivelato l’ira della dea e ha comandato di sacrificare Ifigenia ad Artemide, la mandano a chiamare fingendo che sia per le nozze con Achille, ma quando si accingono a sacrificarla, Artemide la rapisce e la trasporta fra i Tauri, rendendola immortale, mentre al posto della fanciulla pone presso l’altare un cervo.
In seguito navigano fino a Tenedo. E mentre stanno banchettando, Filottete viene morso da un serpente d’acqua e a causa del cattivo odore viene lasciato a Lemno; Achille, chiamato solo dopo, litiga con Agamennone.
In seguito, sbarcati a Ilio, vengono respinti dai Troiani, e muore Protesilao, per mano di Ettore. In seguito Achille li volge in fuga dopo aver ucciso Cicno, figlio di Posidone. Quindi recuperano i cadaveri dei morti. Poi mandano un’ambasceria ai Troiani, reclamando Elena e le ricchezze sottratte. Ma poiché quelli non accondiscendono, in quel momento allora dànno l’assalto alle mura.
In seguito devastano la regione e le città vicine, percorrendo il territorio in lungo e in largo. Successivamente Achille desidera vedere Elena, e Afrodite e Tetide li conducono nello stesso luogo, facendoli incontrare.
Poi, quando gli Achei si sono ormai messi in moto per rientrare in patria, Achille li trattiene. E in seguito porta via le vacche di Enea, e saccheggia Lirnesso e Pedaso e molte delle città circostanti, e uccide Troilo. Patroclo porta Licaone a Lemno e lo vende. E dal bottino Achille prende come dono onorifico Briseide, mentre Agamennone prende Criseide.
In seguito c’è la morte di Palamede, e la decisione di Zeus di alleviare le sorti dei Troiani rimuovendo Achille dall’alleanza dei Greci, e il catalogo degli alleati dei Troiani.

Continua a leggere

La vecchia pazza – Apuleio, Metamorfosi VII 27-28

[25-26]

[27] 1. Avvenne così che la mia rovina fosse differita al giorno dopo. In ogni caso, io rendevo grazie a quel buon ragazzino, perché almeno, da morto, mi aveva donato quell’unica, minuscola giornata prima della carneficina.

2. E tuttavia nemmeno quel minuscolo spazio di tempo mi fu concesso per rallegrarmi o riposarmi; la madre del ragazzino, infatti, lamentando l’acerba morte del figlio tutta piangente e lacrimosa e coperta da una veste nera, strappandosi con ambo le mani i capelli bianchi sparsi di cenere, gemendo sempre più fino a strillare, irrompe nella mia stalla e, battendosi e spaccandosi violentemente i seni, comincia: 3. «E ora questo qui se ne sta tranquillamente chino sulla mangiatoia, schiavo della sua voracità, e abbuffata dopo abbuffata gonfia senza sosta il ventre insaziabile e profondo: non ha compassione per la mia pena e non si ricorda la fine abominevole del suo custode defunto; 4. ma di sicuro disprezza e disdegna la mia vecchiaia e la mia fragilità, e crede di potersela cavare impunemente dopo un tanto grande delitto. Ma a ogni modo lui si immagina innocente: certo, è tipico delle peggiori imprese sperare di scamparla anche dinanzi a una coscienza sporca. 5. Che poi, in nome degli dèi, stramaledetto quadrupede, mettiamo che tu assuma provvisoriamente l’uso della voce, chi in fin dei conti, fosse anche il più stupido di tutti, potresti convincere che questa atrocità non è colpa tua, quando avresti potuto contrattaccare con le zampe e proteggere coi morsi il mio povero bambino? 6. O forse, quando era in carne e ossa, sei riuscito ad attaccarlo più volte con i tuoi calci, ma quando stava per morire, non sei riuscito a difenderlo con altrettanto zelo? 7. Per lo meno avresti potuto accoglierlo sul dorso e portartelo subito via: lo avresti strappato dalle mani insanguinate di quel pericoloso bandito; insomma, se non avessi gettato giù e abbandonato quel tuo compagno di schiavitù e di viaggi, quel tuo custode e pastore, non te la saresti data a gambe da solo. 8. O forse non sai che è consuetudine punire anche coloro che hanno negato l’aiuto decisivo a persone in pericolo di vita, poiché l’azione stessa che hanno compiuto è contraria a qualsiasi valore? 9. Ma non gioirai più a lungo delle mie sciagure, omicida! Sentirai – te lo farò sentire io! – che un dolore disperato ha una forza innata»; [28] 1. detto fatto, infilate la mani sotto la veste, si scioglie la fascia per il seno e mi ci lega i piedi separatamente, quindi li stringe insieme serratissimi, evidentemente affinché non mi restasse alcuna possibilità di vendicarmi, 2. e afferrata la pertica con cui erano soliti sprangare le porte della stalla, non smise di colpirmi prima che, vinte e venute meno le forze, il randello, gravato dal suo stesso peso, le fosse scivolato dalle mani. 3. Allora lamentatasi del rapido affaticamento delle sue braccia, corre a precipizio verso il braciere e, preso un tizzone ardente, me lo spinge nel bel mezzo dell’inguine, finché, ricorrendo all’unica difesa che mi restava, espulso all’improvviso dello sterco liquido, le imbrattai la faccia e gli occhi. 4. Ed è grazie a quella cecità e a quel fetore che alla fine scampai alla rovina: altrimenti, un Meleagro asino sarebbe morto a causa del tizzone di un’Altea delirante. 

 

Continua a leggere