Euripide, Elena, terzo stasimo

O veloce remo
fenicio di Sidone, ciurma cara
ai frangenti di Nereo,
guida delle belle danze
dei delfini, quando il mare
è privo di soffi di venti,
e l’azzurra figlia di Ponto,
Galanea, dice queste parole:
«Ripiegate le vele, lasciando
stare i soffi marini,
e prendete le pale abetine,
o marinai, marinai,
che scortate Elena
alle rive ricche di porti della dimora di Perseo.

Forse lungo il flutto del fiume
o davanti al tempio di Pallade troverà
le fanciulle figlie di Leucippo,
unendosi finalmente alle danze
o alle feste di Giacinto
in notturna allegria,
che gareggiando
nel disco dal cerchio rotondo
Febo uccise (alla terra
spartana la progenie di Zeus
disse di onorare quel giorno con sacrifici di buoi);
e la fanciulla che †lasciò in casa†
<…>
per le cui nozze non hanno ancora brillato le torce di pino.

Magari potessimo volare
attraverso l’etere fino in Libia, dove
gli uccelli a stormo,
lasciata la pioggia invernale,
ritornano obbedendo
al fischio del più vecchio,
il pastore, che grida
volando sopra le pianure secche
e fruttifere della terra.
O volatili dal collo lungo,
compagni di corsa delle nuvole,
andate sotto le Pleiadi a metà del loro tragitto
e sotto Orione notturno,
annunciate la notizia,
posandovi sull’Eurota,
che Menelao, presa
la città di Dardano, sta per tornare a casa.

Venite con i vostri cavalli
slanciandovi attraverso l’etere,
figli di Tindaro,
voi che abitate in cielo
sotto le bufere di astri splendenti,
gemelli salvatori di Elena,
sull’azzurro flutto marino
e i bianchi frangenti cerulei
delle onde del mare,
mandando ai marinai soffi
propizi di vento, dono di Zeus,
e togliete a vostra sorella
l’infamia di barbari letti,
che si guadagnò come punizione
per la contesa sull’Ida, lei che
non andò nella terra di Ilio,
alle torri di Febo.

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